Migliaia e migliaia di persone si sono riversate il 13 febbario scorso nelle piazze di città e paesi italiani. Non è stata solo una manifestazione di donne o per le donne o ancor peggio (come qualcuno strumentalmente accusa) contro le donne, ma una manifestazione di PERSONE. Credo che tale successo sia dovuto al fatto che si è stati capaci di trovare un registro che si è discostato dalla pura indignazione, da sterili moralismi, da ipocrisie, da una falsa contrapposizione, che mirava a strumentalizzare la manifestazione, per cui si deve essere per forza a favore o contro qualcosa o qualcuno, identificando il nemico, il diverso.
La mobilitazione di ieri ha dimostrato che la dignità, e non solo quella delle donne, non può essere considerata slegata dalla vita civile e politica di un paese, poiché essa è un fondamentale indice di democrazia. Io credo che ieri le persone fossero in piazza perché la dignità lesa è quella di donne e uomini, lavoratrici e lavoratori che assistono impotenti al dilagare di un regime di "populismo proprietario" (come qualcuna lo ha definito), che sta uccidendo la nostra "seppur imperfetta" democrazia.
Gli atteggiamenti del Presidente del Consiglio non sono un problema delle donne. Il problema è l'inciviltà nella quale il nostro paese è piombato, è la miseria reale e simbolica che ci assedia; infatti il maschilismo di cui il Presidente del Consiglio è perfetto testimonial è atteggiamento diffuso, condiviso e ammirato, è senso comune.
Ma non nascondo che in questi giorni, sia durante l'organizzazione della manifestazione sia ieri in piazza, il mio sentire e il mio agire erano pervasi da un senso di disagio e di inadeguatezza che, ho poi "scoperto", non essere solo mio. Il disagio di cui parlo, e quello di molte altre mie coetanee, è da ricondursi a una domanda che continua a ripresentarsi alla nostra attenzione: dov'eravamo noi quarantenni di oggi quando tutto questo metteva radici, si sviluppava e si radicava nella mentalità della società contemporanea? Le nostre madri avevano creduto di aver lottato per costruire un altro paese che non fosse quello che oggi la TV ci mostra: un paese dove ogni giorno la realtà viene mistificata, un paese intriso di illegalità, un paese afflitto da un torpore quotidiano, da un degenerante qualunquismo; un paese dove i diritti dei lavoratori vengono quotidianamente messi in discussione, un paese caratterizzato dalla permanente differenza contributiva nei salari tra uomini e donne e dalla fatica nel conquistare spazi nel mondo del lavoro e ruoli di rilievo, nonostante il 53% delle donne abbia un titolo di studio superiore, contro il 45% maschile; un paese dove le donne non vengono riconosciute parte integrante di un reale processo democratico; un paese nel quale una donna che riveste un ruolo politico è costretta a dire: "Anche io avrei voluto usufruire del periodo di maternità, dedicandomi a mio figlio, ma se lo avessi fatto sarei stata tagliata fuori".
La realtà è che abbiamo smesso di lottare, dando per acquisite le conquiste fatte, ritenendole intoccabili.
La realtà è che, oggi, a una generazione di distanza dal femminismo degli anni Settanta, ci dobbiamo confrontare con il limite e il prezzo di ogni conquista fatta. Li viviamo quotidianamente nella distanza fra la generazione che ha vissuto quel femminismo e le più giovani; questo distacco si manifesta come difficoltà a veicolare il significato di quell’esperienza, come incessante riproporre in forma banalizzata o come puro e semplice pregiudizio gli esiti di quella riflessione: i temi del corpo, della maternità, della cura. Li valutiamo nella lontananza dal potere, a dispetto della presenza nell’agenda politica, e non solo europea, dei contenuti dell’empowerment e delle pari opportunità, che sono riconosciuti come temi mainstream, mentre ancora la loro attuazione è parziale e imperfetta.
Nel 1919 Alice Clark concludeva il suo saggio "Working life of women in the seventeenth century" con queste parole: «Possiamo chiederci se l’instabilità, la superficialità e la povertà spirituale della vita moderna non derivino dall’organizzazione di uno Stato che prende in considerazione gli scopi della vita soltanto dal punto di vista maschile, e forse possiamo sperare che quando questo meccanismo sarà stato rimpiazzato da un’organizzazione che tenga conto dell’intera realtà, che è sia maschile che femminile, l’umanità vedrà rinnovarsi l’energia che la renda capace di fronteggiare la forza cieca del capitalismo».
Parole scritte quasi un secolo fa, ma ancora oggi attuali e che ci fanno riflettere sul fatto che una democrazia in cui una parte rilevante della popolazione è esclusa dal processo politico-istituzionale a vantaggio della prevalenza di un'altra è "incompiuta". Questo stato di cose porta inevitabilmente alla necessità di ripensare il modello democratico, nella direzione di "una democrazia duale". È necessario dare conto nelle istituzioni di come sia cambiata la vita delle donne che non si percepiscono più come subordinate rispetto agli uomini, pur dovendo misurarsi con vite precarie, con le difficoltà della conciliazione dei tempi di cura e lavoro, con il persistere di stereotipi di genere nella socializzazione dei ruoli e nelle aspettative sociali. Ma qualità e quantità non sono separabili. Senza una presenza reale delle donne che sia numericamente consistente, è impossibile avviare una reale trasformazione delle istituzioni.
Io credo che questi siano i temi sui quali riflettere e lavorare e, affinché le energie, gli sforzi, la volontà di cambiamento che hanno reso possibile la mobilitazione di ieri non vadano dispersi, tale mobilitazione deve diventare permanente: è questa la grande sfida che dobbiamo raccogliere, unite, seppur nelle differenze, dalla certezza che un paese compiutamente democratico sia davvero possibile.
Esmeralda Ughi
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