martedì 29 marzo 2011

IL NOSTRO FEDERALISMO

Pubblichiamo l'intervento di Silvio Lai apparso sulla Nuova di martedì 29 marzo 2011.

UNA SARDEGNA CHE TORNI A SPERARE
Per questo vogliamo un nuovo PD

Chiedo ospitalità per una riflessione pubblica sulle trasformazioni sociali che ci stanno travolgendo. Una riflessione sulle difficoltà che vivono le istituzioni e i partiti e sulle scelte politiche che siamo chiamati a fare, per non sottrarci a un debito verso i nostri figli. L'Europa, su cui i nostri padri hanno investito affidandole il futuro di una civiltà intera, appare incapace e divisa di fronte alle scelte fondamentali sul destino del Mediterraneo. Il nostro Paese affronta con sottovalutazione la sfida di un ridisegno istituzionale discusso che non si fermerà, anche perché il federalismo, con i limiti e le disuguaglianze che vanno combattute, è il tentativo, come ci ha trasmesso con coraggio il Presidente Napolitano, di tenere insieme un paese già diviso da tempo. La Sardegna arriva a queste sfide senza voce, con un sistema industriale al collasso, con i fondamentali economici e sociali allo stremo, con poca fiducia nei suoi mezzi, e forse con un'idea prevalente che si tratti di una tempesta che passerà, sia quella economica sia quella istituzionale, o che qualcuno dall'alto ci salverà.

Ma non è così! Non possiamo che affrontare la sfida del federalismo, perché è la misura dell'efficienza della pubblica amministrazione e della trasparenza per una piena consapevolezza dei cittadini; non possiamo che affrontare la crisi economica dalle radici per ridurre le disuguaglianze che, già forti dopo la crisi degli anni '90, lasceranno tre sardi su dieci più poveri; non possiamo lasciare che il destino della nostra isola sia quello disegnato dai demografi: 350.000 abitanti n meno tra 40 anni, Sassari abitata da 2/3 dell'attuale popolazione e almeno 100 comuni su 377 destinati all'estinzione: una terra vecchia e con poche speranze.

La Sardegna può avere un destino diverso, ha potenzialità inespresse e risorse profonde, a partire da quelle etiche e morali, fondamentali per una rinascita, può evitare il rimpianto delle cose del passato o degli errori compiuti, può restituire intatte le risorse di oggi e persino decidere di accrescerle piantando alberi di cui solo i nipoti vedranno i frutti.

La politica può fare il suo mestiere solo se non guarda al giorno per giorno e si prende le responsabilità cui è chiamata. Ecco perché il Partito democratico in Sardegna ha scelto di aprire una nuova fase che non serva solo per la prossima sfida elettorale, ma per scrivere una pagina più profonda e più duratura per l'isola. La scelta è di costruire una forza autonoma, riformista, federalista, che rappresenti il Pd in Sardegna ma che allarghi quei confini ad altri valori e radici, che risponda alle domande nuove a cui rischiano di rispondere solo i fermenti d'indipendenza.

La scelta non è semplice, costringe il gruppo dirigente sardo a uscire dal porto sicuro delle leadership nazionali per mettere in campo i contenuti (se ci sono), superare le piccole sovranità (ormai inutili di fronte alla molteplicità dei cittadini), e andare nel mare aperto delle domande di giustizia e della missione per la nostra isola che è da riscrivere da capo.

La scelta è quella di aprire un'elaborazione che disegni le azioni che sono necessarie oggi perché abbiano effetto tra vent'anni, che tocchino le ingiustizie profonde che la quotidianità della politica non sempre ha la forza di affrontare.

È l'ingiustizia di chi ha 45 anni oggi, moglie e un figlio e ha fatto finora la vita da precario, con quattro o cinque anni di contributi, talvolta laureato, insegnante precario o autista di Arst o Atp a tempo. È l'ingiustizia di chi ha 50 anni e fa l'operaio di una delle tante aziende industriali in crisi e sa che lo aspetta l'inutilità umiliante della cassa integrazione lunga, o quella peggiore di chi sta a 100 metri d'altezza e ha 35 anni e già si sente senza mestiere. È l'ingiustizia di chi sta lasciando i piccoli paesi e la campagna dopo 25 anni di contributi europei e regionali che lo hanno lasciato solo e senza un sostegno per trasformare una condanna in un'impresa. È l'ingiustizia dei ragazzi di 20 anni che sono i più confusi perché l'ascensore sociale non esiste più.

Noi vogliamo raccogliere questa sfida, dentro il federalismo e l'unità nazionale ma con le nostre forze e il nostro rigore, quello che vogliamo che le nostre prossime generazioni riacquistino, dentro il nostro Paese sapendo che dobbiamo costruire, e non saranno concessioni facili, istituzioni dove le decisioni che ci riguardano si prendono con noi e non senza di noi.

Vogliamo per questo pensare a una comunità, prima che a un partito, in cui ogni sardo ritrovi il sardismo azionista di Lussu, il pensiero autonomista di Dettori e Cardia, e soprattutto la voce fresca di Ignazio, Francesca, Egildo, Laura e Gianni, ragazzi o meno, di chi non quieterà sino a quando ci sarà una sola ingiustizia.

Silvio lai

Segretario regionale del PD





lunedì 28 marzo 2011

IL CIBO SCADENTE DELLE MENSE OSPEDALIERE

Pubblichiamo l'intervento di Cristiana Patta apparso sulla Nuova di domenica 27 marzo 2011.

IL CIBO SCADENTE DELLE MENSE OSPEDALIERE

Nel Nord Sardegna vengono ignorate le indicazioni ministeriali

Ippocrate di Kos, il famoso fisiocrate dell'antichità greca, considerato il fondatore della medicina, affermava: "Sia il cibo la tua medicina e la medicina il tuo cibo". Se la seconda raccomandazione sembra universalmente applicata, la prima è totalmente disattesa dalle strutture ospedaliere del Nord ovest della Sardegna. Chi vi scrive è stato testimone diretto (nonché utente) di un servizio "mensa ospedaliera" scadente e totalmente estraneo ai principi enunciati già dal 2000 dalla legge finanziaria la quale, all'articolo 58, prevedeva che "per garantire la promozione della produzione agricola biologica e di qualità, le istituzioni pubbliche che gestiscono mense scolastiche ed ospedaliere prevedono nelle diete giornaliere l'utilizzazione di prodotti biologici, tipici e tradizionali nonché di quelli a denominazione protetta, tenendo conto delle guida e delle altre raccomandazioni dell'Istituto nazionale della nutrizione. Gli appalti pubblici di servizi relativi alla ristorazione delle istituzioni suddette sono aggiudicati attribuendo valore preminente all'elemento relativo alla qualità dei prodotti agricoli offerti."

Orbene, non solo delle DOP e del biologico non c'è traccia, ma quanto offerto ai pazienti nello sterilizzato vassoietto appare ispirato al principio di massima economicità con la conseguenza ippocratica di predisporre il paziente alla depressione nelle ore dei pasti. Negli ospedali delle provincie di Sassari e di Olbia si consumano circa 900.000 pasti all'anno (in Italia 240 milioni) con una spesa che si aggira sui 10 milioni di euro. E se, secondo dati ministeriali, il 50% del cibo somministrato viene buttato via, qualche motivo ci dovrà pur essere.

Dello stato delle cose se ne era accorta anche la ministra Turco che, nel luglio del 2007, si era alleata cob Slow Food nel progetto "Nero su bianco", che nasceva dalla necessità di garantire una "buona e corretta" alimentazione del malato. E come rendere pranzi e cene più succulenti? Portando nel piatto dei pazienti quei prodotti locali e stagionali di qualità, punto di forza delle piccole produzioni tradizionali e artigianali, che nascono nel territorio stesso. Evidentemente principi non applicati, come le parole al vento dell'ex assessore Prato, il quale, impattando sulle orecchie sorde del suo collega Liori, continua inutilmente a parlarci di "valorizzazione dei prodotti locali nelle scuole e nelle mense". E dell'assenza di un dietologo nelle cliniche, previsto dal piano sanitario nazionale, ne vogliamo parlare? Almeno nelle cliniche sarde si applica il principio di parità fra i pazienti (tutti mangiano male allo stesso modo) nel rispetto del LES (livello essenziale di sussistenza).

Il menù tipico? Eccolo: ricotta bovina prodotta non in Sardegna (fatta forse con latte tedesco), mentre i nostri caseifici annegano nella, nutrizionalmente parlando, migliore ricotta di pecora; mozzarelle (si fa per dire) da discount, invece di quelle ottime prodotte in loco; formaggio Emmental invece del nostro pecorino; polpette al sugo e fettine suola-di-scarpa, invece che spezzatino di agnello da latte nostrano e carne di bue rosso. Se in linea di principio non ha senso risparmiare sul cibo, ha meno senso risparmiare su quello da dare ai malati. E forse, offrendo un cibo migliore e locale, se ne butterebbe via meno, con un reale risparmio per tutta la collettività e un vantaggio per la nostra devastata agricoltura.

Cristiana Patta

Presidente dell'Assemblea provinciale del PD Sassari

venerdì 25 marzo 2011

Belle iniziative

Stasera alla Sala Angioy della Provincia c'è un'iniziativa del PD per i 150 dell'Unità d'Italia.

giovedì 17 marzo 2011

Industria sassarese 2

Lunedì ho pubblicato il pezzo sull'industria sassarese che ha avuto l'onore di finire anche su Rosarossaonline e di una risposta di Aldo Vanini.
Qui ci sono le mie controriflessioni che trovate anche su Rosarossaonline.

A me gli spunti polemici piacciono se servono a capirsi meglio. Ed evidentemente in questo caso mi ritrovo a dover dire le frasi di un comico che non ricordo più "non so se mi sono capito o se mi rendo conto di quello che dico", anche perché la reazione di Aldo Vanini al mio articolo di ieri non è stata l'unica di tono simile. Qualcuno privatamente mi ha detto: sai io sono un industrialista e penso che dobbiamo provare a tenerci l'industria, quella che sia.
Bòn, una cosa la dico in premessa a scopo puramente polemico: si può dire qualcosa di facile (io avevo scritto addirittura: banale), non tutto deve essere difficile. Complessa deve essere l'analisi, anche faticosa e difficile, ma poi alla fine si può e magari si deve dire qualcosa di facile.
Ma è chiaro che non mi sono spiegato bene. Anche perché il titolo del mio articolo non aiutava (non l'ho scelto io, ma non accuso nessuno evidentemente non mi sono davvero spiegato). Quindi mi chiarisco a me stesso prima che al prossimo, Aldo compreso. Come ho scritto non sono un luddista né un ambientalista fanatico: mangio uova di galline in gabbia e non credo nella "decrescita felice". Non solo non sono contrario all'industria, ma ho sottolineato l'innegabile rivoluzione in termini di tenore di vita che l'industria ha comportato nelle aree dove è stata installata a partire dagli anni Cinquanta. Quanti poveracci sardi hanno campato le loro famiglie in tutto questo tempo grazie all'industria? Molti, moltissimi, non me ne voglia Aldo se non metto numeri (non li so!) e quanti "figli di poveracci" sono andati all'Università grazie ai loro padri nell'industria? Tantissimi, compresa quella ragazza che lottava col padre in una occupazione dei mesi scorsi. Quindi... viene voglia di abbracciarla l'industria. Diamoci un'industria che funziona e sarò disposto a pagarne il prezzo, anche nei termini di un congruo ma non eccessivo numero di tumori (decidete voi quanto è congruo e quanto è eccessivo).
Ma c'è un però che avevo detto o almeno così mi pareva anche se in modo "semplice troppo semplice", ma che ora scrivo con parole non mie, così sono sicuro che mi rendo conto di quello che dico: "ora, é evidente che il sistema gestionale di tutti questi settori [industriali], in Sardegna, non abbia funzionato. Che le risorse siano state distribuite senza garanzie, cercando di attrarre impresa non con i vantaggi di un sistema snello, accogliente ed efficiente, ma con le regalie dei contributi a fondo perduto, mai condizionati ai risultati, sempre legati a tappare qualche crisi endemica e, quindi, sotto costante ricatto e sotto la costante minaccia dell’abbandono causato dalla mancanza di reali vantaggi a permanere, appena esaurito il beneficio iniziale" (copyright Aldo Vanini). Effettivamente è più chiaro e articolato di un semplice: "questo sistema non ha mai funzionato" (copyright Mauro Sanna).
Non ho l'impressione, ma forse mi sbaglio, che i Sardi abbiano cenato molto spesso a scrocco (ma forse il Gatto e la Volpe sì), né mai adottato la politica del nimby: ci siamo fatti piantare industrie petrolchimiche e strutture edili costasmeraldesche in tutti i giardini di casa, abbiamo abbracciato basi militari, alcune forse radioattive, per ogni dove (e le difendiamo con i sindaci del PD), tutto in nome del va bene anche nel mio giardino e non solo per motivi economici, ma perché così siamo anche più Italiani. Non dico ai Sardi, ma a me i compromessi piacciono tantissimo se servono come in Emilia, in Altoadige etc. a "trovare un punto di equilibrio tra tutti i settori produttivi, mantenendo occupazione e sviluppo, riuscendo a dotarsi di una burocrazia efficiente e propositiva e non votata al diniego permanente e generalizzato" (copyright Aldo Vanini). E questo punto di equilibrio è stato certamente trovato anche in Sardegna, come dimostra l'occupazione dell'Asinara e della Torre aragonese che si trascina da oltre un anno.
Il punto è che in Sardegna "le risorse, non neghiamolo, sono arrivate e in non modesta misura, fin[endo] piantate nel Campo dei Miracoli, a beneficio di tutti i Gatti e Volpi, locali e forestieri, che hanno speculato sulla lentezza, sull’indecisione, sulla mancanza di idee e progetti concreti e coordinati" (sempre copyright Aldo Vanini così mi spiego meglio). Immagino che abbiano speculato sulle spalle di quei Sardi che la schiena se la spaccano nell'industria e magari ci muoiono anche dentro. Perciò, mi domando, sarà il caso di continuare a piantar soldi nel campo dei miracoli? O di trovare delle exit strategies per smetterla di farci prendere per il...naso come dei Pinocchi? Dobbiamo continuare a bruciare risorse dello Stato? Proviamoci. Col piccolo particolare, a proposito di campi dei miracoli, che lo Stato, che non è fatto solo dai Sardi tra l'altro, di risorse da mettere in campi sterili non ne ha più. Io sono disposto a tenermi anche questa di industria, anche se non funziona, purché qualcuno sia disposto a metterci i soldi in perdita, ma pare che questo qualcuno non ci sia. Sennò quelli lì non sarebbero sulle torri. Ecco perché la politica deve trovare altre soluzioni. La stagione del Paese dei balocchi è finita e non grazie al fatto che ci siamo accorti per primi del fatto che piantar soldi in quel campo non funziona. La Sardegna, "questa povera isola, sempre più in crisi economica e occupazionale, non può permettersi di rifiutare alcuna occasione produttiva, in tutti i settori economici, che dia garanzia di serietà e durata nel tempo, perché la stabilità del benessere consiste proprio nella pluralità delle attività economiche, nell’interconnessione degli indotti, nella crescita del know how culturale e tecnologico che può essere garantito solo dalla densità degli investimenti" (copyright Aldo Vanini).
Quali sono questi settori? Quale la pluralità delle attività economiche? Quale l'interconnessione degli indotti? Boh, non lo so, d'altronde io non vado alle Direzioni e non leggo la Camusso, leggo solo Aldo Vanini, copio solo da lui, ma questo pezzo da copiare, da lui, non l'ho trovato.
Mauro Sanna.

sabato 12 marzo 2011

Comunicato stampa - 12 marzo, il Partito Democratico in piazza in difesa della Scuola e della Costituzione senza bandiere

Il Partito Democratico di Sassari aderisce alla Manifestazione del 12 marzo 2011, in difesa della Costituzione e della scuola pubblica, che si svolgerà in Piazza Italia dalle ore 16.00, promossa a livello nazionale “dal Comitato a difesa della Costituzione” e "Articolo 21" e a livello locale dal comitato cittadino "Se non ora quando?".

Il Partito Democratico aderisce e manifesta a Sassari, senza bandiere, perché oggi, dopo una crisi economica devastante e nessuna ricetta miracolosa, dopo il bluff del milione di posti di lavoro e del patto cogli italiani firmato nei salotti televisivi, dopo gli attacchi vergognosi alla magistratura, dopo aver visto cadere uno a uno i luoghi dell'informazione libera diventati roccaforti asservite al potere ci sono cittadine e cittadini delusi e disillusi, ma pronti a tirare su la testa e a dire basta! per difendere la nostra Costituzione e la nostra Democrazia.

Le offese degli ultimi giorni, così aggressive e così piene di livore, alla scuola pubblica, agli insegnanti, agli studenti, non hanno fatto altro che confermare che dietro al progetto falsamente ottimista del premier, c'è solo l'idea triste di una società vecchia, ipocrita, costituita da sudditi e non da cittadini, divisa in due: ricchi e poveri, italiani e immigrati, manovalanza precaria o classe dirigente profumatamente pagata, giovani che a 15 anni andranno a lavorare in un cantiere solo perché non hanno una famiglia che 'conta' alle spalle e giovani di 15 anni predestinati per 'motivi familiari' alla laurea. E la scuola dei tagli di Gelmini & Tremonti è lo specchio perfetto della società che immagina Berlusconi. Una società dove un ragazzino di 12 o 13 anni è chiamato, in modo univoco e non rimediabile, a scegliere il proprio destino. L'Italia è l'unico paese dell'Unione europea che invece di innalzare l'età dell'obbligo scolastico la riduce!

La Costituzione che impegna la Repubblica, all'articolo 3, a "...rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese", e che all'articolo 34 stabilisce che "...i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto...", è un pezzo d'antiquariato inutile, un documento fastidioso da passare al trita carte. Gli insegnanti sono dei sovversivi che inculcano idee pericolose nella testa dei ragazzi. La scuola pubblica un luogo inutilmente costoso che forse, come ha provocatoriamente osservato Francesca Puglisi, responsabile nazionale scuola del PD, sarebbe meglio appaltare al Cepu.

Ecco perché il Forum istruzione del PD, i circoli cittadini del PD e il Partito Democratico cittadino e provinciale di Sassari e i suoi gruppi consiliari, parteciperanno alla manifestazione di sabato 12 marzo a Sassari, senza bandiere: perché stiamo dalla parte della scuola pubblica, fondamento di libertà e progresso, e guardiamo al futuro, e le gambe che camminano verso il futuro sono quelle dei giovani e degli studenti.

Il segretario provinciale del PD

Giuseppe Lorenzoni

Il segretario cittadino

Giovanni Isetta

I segretari dei circoli n° 1-5

Salvatore Fadda, Gianni Sale, Fabio Pinna, Mauro Sanna, Sandro Cubeddu.

Industria sassarese

Tra le innumerevoli cose che in questo periodo non riesco a fare c'è stato anche il non essere andato alla direzione congiunta regional-provinciale del partito che si è tenuta oggi a Porto Torres per discutere di industria con Fassina. E mi dispiace. Perché era una buona iniziativa di questo faticoso Partito Democratico. Come mi dispiace non aver letto l'intervista alla Nuova di Susanna Camusso, ma aver letto solo il titolo: "Il futuro è nell'industria". Quindi le cose che vado scrivendo le vado scrivendo "al buio".
E quello che ho da dire mi sembra banale, anche perché in fondo io di sistemi industriali non capisco niente, però voglio dirlo lo stesso: ecco secondo me invece questo sistema non funziona. Almeno non così, non con questa industria. Mi piacerebbe poter dire che non funziona più e invece mi pare che non abbia mai funzionato. Perciò, pur dovendo assolutamente "gestire l'esistente" perché ne va della vita lavorativa, ma non solo, di centinaia di famiglie, quindi in realtà, della sopravvivenza dell'intero sistema sociale dell'area di Porto Torres e più in generale del nord-Sardegna, la politica deve al più presto elaborare delle exit strategies volte a immaginare uno sviluppo diverso nell'area. Uno sviluppo che tenga conto dell'esperienza devastante che la chimica ha rappresentato e rappresenta per la zona, dove ogni fondamentale posto di lavoro è stato pagato ad un prezzo altissimo non solo in termini di contributi economici da parte dello Stato, ma anche in termini di salute dei singoli e di devastazione del territorio. Senza parlare dell'ultimo gravissimo incidente che ha inquinato il Golfo dell'Asinara e che sportivamente e arbitrariamente riconduco in questa sede nell'ambito dell'imponderabile per non farmi prendere da una rabbia eccessiva.
Non mi nascondo, anzi so bene, che il petrolchimico ha rappresentato per l'isola un'innegabile rivoluzione in termini di elevazione del tenore di vita della popolazione. È utile al proposito vedere immagini documentaristiche di quegli anni per l'area di Taranto, dove un infinito numero di Pugliesi emigrati ritornavano con la concreta speranza anzi con la certezza di un avvenire migliore nella loro terra. Per i Sardi è accaduto lo stesso. Non sono un luddista né un ambientalista integralista, ma è proprio in termini economici che il sistema non è mai andato a regime, brucia denaro, non produce la ricchezza sufficiente a mantenersi, figurarsi a produrre un surplus tale da giustificare lo scempio di vita prodottosi sino ad oggi. Dopo tanti anni lo dobbiamo dire, è un dovere non solo morale ma politico.
Non mi illudo che la parola magica possa essere "turismo!", perché lo sappiamo tutti che la stagione è impossibile che duri tutto l'anno, ma insomma, anche se così fosse, neanche Venezia riesce a vivere di solo turismo, neanche Barcellona, figurarsi Porto Torres e il Sassarese. Su cosa puntare? Sull'area franca? Forse, boh. Se lo sapessi credo che sarei già ricco, ma intanto la riqualificazione del territorio, la costruzione di un sistema di controllo e di contenimento del rischio, il pretendere, con tutta la forza che la politica e le istituzioni sanno, applicare il rispetto di rigorose norme di sicurezza del lavoro e dell'ambiente, rappresenta un obiettivo concreto e volto a restituire dignità alla nostra terra e a noi stessi. Anche questo è un modo per fare economia, con l'innegabile vantaggio che nel guardarci in faccia gli uni con gli altri potremo cogliere forse anche un senso di serenità che solo il rispetto per noi stessi ci può dare.

mercoledì 9 marzo 2011

Alcune riflessioni sulla manifestazione del 13 febbraio "Se non ora quando?"

Migliaia e migliaia di persone si sono riversate il 13 febbario scorso nelle piazze di città e paesi italiani. Non è stata solo una manifestazione di donne o per le donne o ancor peggio (come qualcuno strumentalmente accusa) contro le donne, ma una manifestazione di PERSONE. Credo che tale successo sia dovuto al fatto che si è stati capaci di trovare un registro che si è discostato dalla pura indignazione, da sterili moralismi, da ipocrisie, da una falsa contrapposizione, che mirava a strumentalizzare la manifestazione, per cui si deve essere per forza a favore o contro qualcosa o qualcuno, identificando il nemico, il diverso.

La mobilitazione di ieri ha dimostrato che la dignità, e non solo quella delle donne, non può essere considerata slegata dalla vita civile e politica di un paese, poiché essa è un fondamentale indice di democrazia. Io credo che ieri le persone fossero in piazza perché la dignità lesa è quella di donne e uomini, lavoratrici e lavoratori che assistono impotenti al dilagare di un regime di "populismo proprietario" (come qualcuna lo ha definito), che sta uccidendo la nostra "seppur imperfetta" democrazia.

Gli atteggiamenti del Presidente del Consiglio non sono un problema delle donne. Il problema è l'inciviltà nella quale il nostro paese è piombato, è la miseria reale e simbolica che ci assedia; infatti il maschilismo di cui il Presidente del Consiglio è perfetto testimonial è atteggiamento diffuso, condiviso e ammirato, è senso comune.

Ma non nascondo che in questi giorni, sia durante l'organizzazione della manifestazione sia ieri in piazza, il mio sentire e il mio agire erano pervasi da un senso di disagio e di inadeguatezza che, ho poi "scoperto", non essere solo mio. Il disagio di cui parlo, e quello di molte altre mie coetanee, è da ricondursi a una domanda che continua a ripresentarsi alla nostra attenzione: dov'eravamo noi quarantenni di oggi quando tutto questo metteva radici, si sviluppava e si radicava nella mentalità della società contemporanea? Le nostre madri avevano creduto di aver lottato per costruire un altro paese che non fosse quello che oggi la TV ci mostra: un paese dove ogni giorno la realtà viene mistificata, un paese intriso di illegalità, un paese afflitto da un torpore quotidiano, da un degenerante qualunquismo; un paese dove i diritti dei lavoratori vengono quotidianamente messi in discussione, un paese caratterizzato dalla permanente differenza contributiva nei salari tra uomini e donne e dalla fatica nel conquistare spazi nel mondo del lavoro e ruoli di rilievo, nonostante il 53% delle donne abbia un titolo di studio superiore, contro il 45% maschile; un paese dove le donne non vengono riconosciute parte integrante di un reale processo democratico; un paese nel quale una donna che riveste un ruolo politico è costretta a dire: "Anche io avrei voluto usufruire del periodo di maternità, dedicandomi a mio figlio, ma se lo avessi fatto sarei stata tagliata fuori".

La realtà è che abbiamo smesso di lottare, dando per acquisite le conquiste fatte, ritenendole intoccabili.

La realtà è che, oggi, a una generazione di distanza dal femminismo degli anni Settanta, ci dobbiamo confrontare con il limite e il prezzo di ogni conquista fatta. Li viviamo quotidianamente nella distanza fra la generazione che ha vissuto quel femminismo e le più giovani; questo distacco si manifesta come difficoltà a veicolare il significato di quell’esperienza, come incessante riproporre in forma banalizzata o come puro e semplice pregiudizio gli esiti di quella riflessione: i temi del corpo, della maternità, della cura. Li valutiamo nella lontananza dal potere, a dispetto della presenza nell’agenda politica, e non solo europea, dei contenuti dell’empowerment e delle pari opportunità, che sono riconosciuti come temi mainstream, mentre ancora la loro attuazione è parziale e imperfetta.

Nel 1919 Alice Clark concludeva il suo saggio "Working life of women in the seventeenth century" con queste parole: «Possiamo chiederci se l’instabilità, la superficialità e la povertà spirituale della vita moderna non derivino dall’organizzazione di uno Stato che prende in considerazione gli scopi della vita soltanto dal punto di vista maschile, e forse possiamo sperare che quando questo meccanismo sarà stato rimpiazzato da un’organizzazione che tenga conto dell’intera realtà, che è sia maschile che femminile, l’umanità vedrà rinnovarsi l’energia che la renda capace di fronteggiare la forza cieca del capitalismo».

Parole scritte quasi un secolo fa, ma ancora oggi attuali e che ci fanno riflettere sul fatto che una democrazia in cui una parte rilevante della popolazione è esclusa dal processo politico-istituzionale a vantaggio della prevalenza di un'altra è "incompiuta". Questo stato di cose porta inevitabilmente alla necessità di ripensare il modello democratico, nella direzione di "una democrazia duale". È necessario dare conto nelle istituzioni di come sia cambiata la vita delle donne che non si percepiscono più come subordinate rispetto agli uomini, pur dovendo misurarsi con vite precarie, con le difficoltà della conciliazione dei tempi di cura e lavoro, con il persistere di stereotipi di genere nella socializzazione dei ruoli e nelle aspettative sociali. Ma qualità e quantità non sono separabili. Senza una presenza reale delle donne che sia numericamente consistente, è impossibile avviare una reale trasformazione delle istituzioni.

Io credo che questi siano i temi sui quali riflettere e lavorare e, affinché le energie, gli sforzi, la volontà di cambiamento che hanno reso possibile la mobilitazione di ieri non vadano dispersi, tale mobilitazione deve diventare permanente: è questa la grande sfida che dobbiamo raccogliere, unite, seppur nelle differenze, dalla certezza che un paese compiutamente democratico sia davvero possibile.

Esmeralda Ughi